La storia del territorio

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La storia del territorio.

L’insediamento umano nell’area oggi indicata come Spadarolo è stato da sempre favorito da alcune caratteristiche morfologiche, quali la presenza di una zona collinare e di due basilari vie di comunicazione, il fiume Marecchia e la via che conduce ad Arezzo. Il più antico insediamento di cui si è potuto avere conferma risale alla prima età del ferro. Scavi archeologici effettuati nell’Ottocento hanno infatti messo in luce un sepolcreto tipo Villanova, del tutto simile a quello ben più famoso del podere denominato ‘Lavatoio’ di Verucchio. Nel corso degli scavi è stato possibile rinvenire alcuni oggetti molto comuni, provenienti da corredi funebri, tra cui numerose fibule ornate a disegni geometrici. Ritrovamenti importanti sono invece un fermaglio di cinturone ed un disco formato da due cerchi concentrici, con all’interno una figura antropomorfa con ai piedi due volatili stilizzati. Questo disco è a sua volta sorretto, tramite una basetta, da una figura umana a braccia allargate. Era probabilmente applicato ad una coppa emisferica metallica, alla quale forniva sia l’appoggio che il manico.

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Figura 1. Figura antropomorfa

La mancanza di ulteriori dati archeologici riferibili ad epoche successive a quella villanoviana, non permette una ricostruzione degli insediamenti succedutisi nel tempo, anche se si può affermare con una certa sicurezza che la zona è stata abitata anche in epoca romana e tardoantica.

Per arrivare alla vera e propria formazione di una comunità appartenente ad un’area caratterizzata da un toponimo, bisogna aspettare alcuni secoli. La prima traccia documentaria di ‘Spadarolo’ si ha in una pergamena datata 1397 e con questo viene indicato un fondo ossia un appezzamento di terreno. Antecedentemente questa zona viene denominata solamente Paderno o Paterno. Paderno ha significato di ‘fondo del padre’; Spadarolo sembra invece trarre origine da un fondo o un limite fondiario a ‘forma di spadina’, ossia lungo e stretto. Altro significato può essere quello di fondo scola­palude, dal latino ex padulare.
Il passaggio da Paderno a Spadarolo non avviene in maniera radicale: qualcosa sembra cambiare alla metà del Quattrocento, quando da semplice indicazione di fondo, Spadarolo inizia ad indicare anche la chiesa ma, ancora fino al XIX secolo conviveranno entrambi i nomi.

La storia del luogo si intreccia inevitabilmente con quella della chiesa. Menzionata per la prima volta in una bolla di papa Lucio Il del 1144, la chiesa di Santa Maria in paterno è sita nel territorio della pieve di San Lorenzo a Monte, insieme a quelle di Santa Cristina, San Martino in Venti e Santa Maria di Vergiano.
Nel 1371, la descrizione della Romagna del cardinale Anglic de Grimoard, riporta che la villa capelle paderni ha ventiquattro fuochi sotto di sé: ogni fuoco rappresenta un nucleo famigliare.
Notizie sia di ordine demografico che descrizioni maggiormente soddisfacenti sulla chiesa sono giunte a noi grazie alle visite pastorali, rese obbligatorie dal Concilio di Trento. La più antica rimasta è del 1542. Parroco è Andrea de Gualdis, suo cappellano tal Vincenzo e la comunità conta circa cinquanta anime. In una visita successiva, quella del 1577, capiamo inoltre che l’edificio, ad unica navata e con due altari, non è in quel periodo in buone condizioni ed anzi malmesso e povero, sia a livello architettonico sia per quanto riguarda gli arredi sacri. In questa visita si fa menzione anche ad alcune pitture, tra una immagine di Sant’Ubaldo, compatrono della parrocchia. La popolazione ha raggiunto i centodieci individui.
Nel Seicento non abbiamo notizie di particolare rilevanza. La chiesa, retta a metà secolo da Franciscus Felix è indicata quasi sempre come la chiesa di Santa Maria di Paderno e Spadarolo o Santa Maria di Paderno in Spadarolo.
Tra Seicento e Settecento è parroco don Livio Procellini, proveniente dalla chiesa di San Lorenzo a Monte ed a lui succede Giulio Barbari, nome legato all’istituzione della cappellania, eretta nel 1731 in favore del popolo. NeI 1757 è parroco Antonio Zambelli e quindi, nel 1792, Filippo Zambelli, suo nipote. Questo, allievo di Jano Planco in discipline umanistiche e di Lelio Pasolini in diritto, era avviato ad una brillante carriera ecclesiastica quando, per motivi famigliari, si vede costretto ad accettare la piccola e povera parrocchia di Spadarolo, rovinata in gran parte dal terremoto del 1786. Avvia per questo quasi subito i lavori di ricostruzione della chiesa, che iniziano nel 1792 e si concludono nel 1796. Il progetto, che prevedeva una ricostruzione dalle fondamenta, viene affidato all’architetto cesenate Giuseppe Achilli, ospite in quel periodo al casino di campagna dei Cima, poco lontano dalla chiesa. La decorazione interna è invece affidata nel 1805 al pittore pesarese Ottaviano Coli, che esegue un ciclo di affreschi sulla vita della Vergine, ciclo oggi in parte perduto ed in parte coperto da verniciature successive.

Tra le opere artistiche ancora oggi visibili da ricordare è un crocifisso quattrocentesco attribuito a Giovan Francesco da Rimini, fatto restaurare recentemente, i putti della Via Crucis dello scultore riminese Antonio Trentanove, una tela di ignoto pittore del XIX secolo raffigurante Sant’Ubaldo ed altri Santi e due tele di Agostino Boldrini (1875-1878), interessanti perché raffigurano l’interno della chiesa e quindi gli affreschi perduti del Coli.

Oltre alla chiesa, di una certa importanza è il palazzo Castracane già Cima. Costruito sui resti di una fattoria fortificata ben documentata nel Quattrocento, è proprietà di molte famiglie notabili, come quelle dei Clementini, dei Ronconi, delle Camminate. Nel XVII secolo viene acquisita dal conte Giulio Ricciardelli e nel secolo successivo dalla famiglia Cima. Al suo interno ha un oratorio intitolato a San Giovanni Battista, dove nel 1799 venne sepolta la contessa Giulia Cima-Belmonte.

 

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Figura 2. Il palazzo Cima nel XVIII secolo ( Catasto Calindri, ASR)

Questa contessa è moglie del cavalier Alessandro Belmonte, al quale passerà tutta la proprietà. Agli inizi dell’Ottocento, contemporaneamente alla decorazione pittorica della chiesa, Ottaviano Coli esegue anche alcuni affreschi nel salone principale di questa villa. Alla fine del secolo, tramite legame di parentela, il palazzo passa alla famiglia Castracane e dopo la morte di Alessandro Castracane degli Antelminelli alla figlia Giulia, che sposerà un Anguissola Scotti.
Nelle guide turistiche viene descritte come un luogo paradisiaco ” che per la vastità dell’edificio, pel profumo delle sue magnolie, pci- la placida tranquillità e freschezza della sua postura offi~e un gradito soggiorno specie nella stagione estiva”.
Venne in gran parte abbattuta durante al seconda guerra mondiale. Rimangono oggi pochissimi resti, tra cui spicca la vecchia filanda, usata per la tessitura della seta, già menzionata negli anni Trenta dell’Ottocento e di proprietà del marchese Belmonte-Cima.

 

Marco Sassi